venerdì 18 luglio 2008

La caverna del fabbro



"La Caverna del Fabbro è la realizzazione di un sogno: il sogno di Giulio, il giovane protagonista. È il travaglio che porta dall'oscurità iniziale verso la consapevolezza del potenziale salvifico delle proprie ombre interiori. È una sorta di viaggio iniziatico, una potente seduzione che devia Giulio da un cammino di malessere verso la scoperta abbagliante di se stesso. La Caverna del Fabbro, in definitiva, è un romanzo in cui la freschezza narrativa si coniuga con lo sforzo di guidare il lettore verso la comprensione di questa ancora grande sconosciuta ai più, che è la psicoterapia"

Francesco Liberati
"La caverna del fabbro"
Corbo Editore


Foto tratte da "ilquotidiano.it"

martedì 2 ottobre 2007

Le scadenze


Le scadenze sono improrogabili, stimolano, sconvolgono, rischiano di togliere la libertà a quelli che pensano "da domani".
"Da domani inizio la dieta";
"Da domani smetto di fumare";
Oggi no, domani...
E puoi mangiarti un bue e sentirti un inceneritore di periferia ma non importa, tanto da domani si cambia vita.

sabato 15 settembre 2007

La torre senza tempo

La cattura e l'inferno
Bologna. Dicembre 1978.

"La paura si comporta spesso come il fuoco: a volte è subito chiaro che la puoi dominare e non ti preoccupi; altre volte è addirittura piacevole... dà calore! Oppure attacca frontalmente e allora comprendi subito che fa sul serio: devi scappare o ti inghiotte!
Ma ci sono dei casi in cui ama giocare al gatto col topo: non la vedi subito, ma senti aumentare la temperatura... e se ti guardi intorno scorgi qualche piccola spirale di fumo dagli interstizi. Allora ti senti bagnar di sudore ma il tuo sangue allo stesso tempo gela.... e non sai da che parte voltarti! Sai che il mostro è lì, a due passi... che niente potrà fermarlo... e ogni porta che tenterai di aprire per fuggir via, potrebbe essere l'ultima della tua vita!..."

Da "La torre senza tempo"
di Francesco Liberati
Gabriele Corbo Editore

Jung

"...All'età di dodici anni ebbi un periodo fatale. Un giorno - al principio dell'estate del 1887 - mi trovavo nella piazza del duomo, in attesa di un compagno di classe che per andare a casa sua faceva la mia stessa strada. Era mezzogiorno, e le lezioni del mattino erano finite. All'im­provviso un altro ragazzo mi diede una spinta, facendomi cadere, e battei con la testa contro l'orlo del marciapiede, così forte che quasi svenni. Per circa mezz'ora rimasi un po' intontito. Nel momento in cui caddi mi balenò questo pensiero. «Adesso non andrai più a scuola.» Ero solo in parte in stato di incoscienza, ma rimasi lì steso qualche momento più dello stretto necessario, soprattutto per vendicarmi del mio maligno assalitore. Poi qualcuno mi fece alzare e mi accompagnò a una casa vicina, dove abi­tavano due mie vecchie zie.

Da allora in poi cominciai ad avere crisi nervose ogni volta che dovevo tornare a scuola, e quando i miei genitori mi ingiungevano di fare i compiti di casa. Rimasi assente da scuola per più di sei mesi; furono una piacevole vacanza. Ero libero, potevo sognare per ore, andare dove volevo, nei boschi o vicino al lago, disegnare. Riprendevo i miei disegni di battaglie e di violente scene di guerra, di vecchi castelli presi d'assalto o incendiati, oppure riem­pivo pagine e pagine di caricature. Caricature simili qualche volta mi appaiono ancora oggi prima di addormentarmi, maschere sogghignanti che si muovono e mutano con­tinuamente, e tra esse visi familiari di persone che sa­rebbero morte poco dopo.

Soprattutto, potevo finalmente immergermi nel mondo del mistero: del quale facevano parte gli alberi, uno spec­chio d'acqua, la palude, pietre e animali, la biblioteca di mio padre. Ma mi isolavo sempre più dal mondo, con una lieve sensazione di cattiva coscienza. Sprecavo il tem­po oziando, facendo raccolte, leggendo e giocando, ma non mi trovavo più felice per questo, e sentivo vagamente di sfuggire a me stesso.

Dimenticai completamente come tutto ciò fosse acca­duto, ma avevo pietà dei miei genitori, che si preoccupavano moltissimo. Consultarono vari dottori, i quali non seppero che cosa dire e mi fecero andare a passare le va­canze presso alcuni parenti a
Winterthur. Qui c'era una stazione ferroviaria che divenne per me un'inesauribile fonte di delizie; ma, quando tornai a casa, tutto era allo stesso punto. Un medico pensò che fossi epilettico: sa­pevo come erano gli attacchi epilettici e dentro di me risi di questa sciocchezza. I miei genitori si angosciavano sem­pre più. Poi un giorno venne un amico a far visita a mio padre. Si sedettero in giardino e io mi nascosi dietro un cespuglio, preso com'ero da un'avida curiosità. Sentii l'amico che diceva a mio padre: «Come sta tuo figlio?» e mio padre: «Ah! È una triste storia! I medici non sanno più che dire, non capiscono dove sia il male. Pensano possa trattarsi di epilessia,'e sarebbe spaventoso che fosse inguaribile. Io ho perduto il poco che avevo, e che sarà di mio figlio se non potrà guadagnarsi da vivere?»

Fu come m'avesse colpito il fulmine. «Ma allora bisogna che mi metta al lavoro!» pensai. Era il brusco risve­glio alla realtà.

Da quel momento divenni un ragazzo serio. Sgusciai via, andai nello studio di mio padre, tirai fuori la grammatica latina, e cominciai a imbottirmi la testa, concen­trandomi intensamente. Dopo dieci minuti svenni, e quasi caddi dalla sedia. Ma in breve mi ripresi, e continuai a lavorare. «Al diavolo, non devo svenire» mi dissi, e per­severai nel mio proposito. Quella volta passarono circa quindici minuti prima che giungesse il secondo attacco: ma anch'esso passò come il primo. «Adesso devi veramente metterti al lavoro!» Continuai con insistenza e do­po un'ora venne il terzo attacco; non desistetti, e lavorai ancora per un'ora, finché ebbi la sensazione di aver vinto: improvvisamente mi sentii così bene come non mi capi­tava da mesi. E infatti non ebbi più altre crisi. Da quel giorno in poi mi misi al lavoro ogni giorno, sia con la grammatica sia con gli altri libri e dopo poche settimane tornai a scuola, e non stetti più male. Tutto era finito per sempre: imparai allora che cos'è una nevrosi.

Un po' alla volta mi tornò alla memoria come era co­minciata l'intera faccenda, e vidi con chiarezza che ero stato proprio io a determinare tale infelice situazione. Ec­co perché non me l'ero presa sul serio con il compagno che mi aveva fatto cadere. Capii che, per così dire, gli avevo attribuita tutta la responsabilità, e che tutta la fac­cenda era, da parte mia, una diabolica congiura. Mi resi conto, anche, che non mi sarebbe accaduto mai più. Pro­vavo rabbia e vergogna per aver voluto tentare un im­broglio a mio danno, facendomi burla di me stesso. Non c'era da biasimare nessun altro, ero io il maledetto di­sertore! Da allora in poi non potei più sopportare che i miei genitori si preoccupassero o parlassero di me con accenti di commiserazione.

La nevrosi diventò un altro dei miei segreti, ma un segreto vergognoso, una sconfitta. Comunque, mi fece diventare deliberatamente puntiglioso e insolitamente dili­gente. A quei giorni risale l'inizio della mia coscienziosità, voluta non per amore delle apparenze o di qualche van­taggio, ma per me stesso. Mi alzavo regolarmente alle cinque per mettermi a studiare, e qualche volta lavoravo persino dalle tre del mattino fino alle sette, prima di andare a scuola.

Il desiderio di appartarmi, la capacità di godere della mia solitudine avevano contribuito a fuorviarmi, durante quel periodo di crisi. La natura mi sembrava piena di pro­digi, e volevo sprofondarmi in essa: ogni pietra, ogni pian ta, ogni cosa pareva viva e indescrivibilmente meravigliosa. Mi immergevo nella natura, quasi mi confondevo nella sua stessa essenza, fuori del mondo degli uomini..."

Carl Gustav Jung

"Ricordi, Sogni, Riflessioni"

venerdì 14 settembre 2007

Schiavi del salutismo di massa


"...Voglio bene ai cani e al cielo, alla biblioteca di Alessandria e alle ragazze con la valigia nello sguardo, al dimostrante che si fida della polizia l'attimo prima che uno sfollagente lo percuota, e l'attimo dopo non dirà per questo che tutti i poliziotti sono fascisti..."

"...Non voglio vivere mezzo morto il più a lungo possibile.
Voglio rimanere vivo il tempo necessario a convincermi che sono esistito davvero."

Diego Cugia
"Jack Folla, Lettere dal silenzio"

mercoledì 12 settembre 2007

Staccando l'ombra da terra

Sapere tutto, anche più di tutto, e trasformare quel sapere in gesti naturali, da mettere in atto nel minimo tempo e in modo istintivo, ma non troppo istintivo; sapere finchè quel sapere diventa movimenti della mano, sensibilità delle dita agli strumenti, sensibilità del corpo alle posizioni nello spazio, cinestesia. Sapere ma non troppo, né essere sicuri di saperlo, poiché l'errore non aspetta altro che la tua sicurezza, ed è lì che morde.

Daniele Del Giudice